domenica 28 aprile 2013

Fantasia

«Così, lettore, sono io stesso la materia del mio libro: non c'è ragione che tu spenda il tuo tempo su un argomento tanto frivolo e vano»
(Michel de Montaigne, Saggi, "Al lettore")


Home Page di Wikipedia. Una voce a caso. Mi apre Fantasia. Vedi un po' dove mi porta la noia domenicale.
La fantasia è una facoltà della mente umana di creare immagini fornite dall'esperienza passata o che possono intrecciare immagini reali o del tutto irreali.
Una facoltà. Immagini irreali. No, tutto questo non fa per me.

Per me, Fantasia è un luogo, qualcosa di reale; ma non si trova nel nostro mondo.

Spesso, Fantasia prende le sembianze di una foresta. Mi piace perdermi in quel grande intrigo di tronchi e radici. Il silenzio predomina in quel luogo, interrotto soltanto dai lievi sussurri del vento, e dal suono dei miei passi su un tappeto interminabile di foglie. La rugiada ricopre ogni cosa, balugina in quel mondo incantato come polvere di stelle, grazie alle chiazze di luce che riescono a superare la ragnatela di rami e foglie sanguigne che ne costituisce la volta. La Città di Smeraldo è niente, in confronto a quello splendore. E proprio come Dorothy, sono sempre una bambina quando percorro quei sentieri imbattuti; una bambina che stringe tra le braccia un coniglio di pezza, il suo caro, amato Ors. Non sono spaventata dalla quiete innaturale che avvolge ogni cosa: Fantasia è la mia seconda casa, il mio rifugio.

Fantasia è il frutto di tutto ciò che mi leggevano da piccola, prima di andare a dormire. Quelle storie sembravano così lunghe ai miei genitori, eppure loro mi accontentavano sempre; mia madre a volte saltava qualche pagina, assonnata dopo un'intera giornata a rincorrere me e mia sorella. Ma c'era sempre qualcuno, ogni sera, che si sedeva accanto a me; lo guardavo con gli occhi sognanti, avvolta nelle coperte, con il mio Ors stretto tra le braccia. Non mi lasciavo sfuggire nemmeno una parola, così come un uomo assetato non si fa sfuggire nessuna goccia d'acqua, e gioisce nel sentirla scendere fresca per la gola.

Il passaggio dall'ascoltare al leggere fu inevitabile. Ogni nuovo libro che stringo tra le mani, ogni nuovo capitolo che comincio, ogni nuova pagina che giro, diventa la linfa vitale della mia Fantasia. Quando il profumo delle parole mi avvolge nasce qualcosa di nuovo, il mio rifugio diventa ancora più magico, più speciale, si arricchisce di colori e sfumature.

Mi ricordo di quando ero più piccola. Non avevo amici, ero "quella di fuori paese"; così nel mio mondo immaginario ho incontrato Alice. Aveva un modo tutto suo di sorridere, con gli occhi luccicanti di gioia attraverso le lenti spesse degli occhiali - che cosa strana, tanti anni dopo, riscoprire quello stesso sorriso in una persona del mio stesso mondo! Alice indossava salopette scolorite dal troppo tempo passato a giocare, le lunghe trecce bionde sempre in disordine. Sbucava all'improvviso da dietro un albero, mi afferrava per mano e mi trascinava verso strade che mi sembravano impercorribili. Scoprivamo ogni giorno qualche lago in cui nuotare, qualche animale da rincorrere, qualche albero su cui arrampicarsi.

Ricordo che i miei genitori litigavano spesso in quel periodo. Io mi nascondevo in un angolo della mia cameretta che avevo progettato appositamente. Lì, dietro a un separé rosa e bianco di plastica, avevo posizionato tutti i miei libri, con Ors come guardiano.
E Fantasia mi aiutava a non ascoltare quello che si dicevano.
Fantasia c'era anche quando alla fine hanno divorziato, quando speravo che sarebbero tornati insieme.
Fantasia non mi ha abbandonata quando ho capito che non sarebbe mai successo.
Fantasia mi ha fatto capire che non avrei mai più avuto bisogno di nascondermi in camera mia.

Fantasia.

Fantasia c'è sempre stata, ha sempre asciugato le mie lacrime. Le stesse che ora sto versando mentre scrivo queste parole.

Mentre crescevo ho imparato a far uscire Fantasia dalla mia testa. Ho capito che con la recitazione potevo liberare tutte le mie emozioni, e che con la scrittura potevo renderle immortali.

Ma sarò davvero cresciuta? Io, che continuo ancora a perdermi nella mia Fantasia? Io, che continuo a credere nell'esistenza di mondi fantastici?

Se essere adulti significa smettere di credere in un sogno, io continuerò a dormire con un coniglio di pezza per tutta la vita.

Incubo di una notte di mezza estate


Tratto da un incubo vero       

Tutto si riduce all’ultima persona a cui pensi la notte. È lì che è il cuore.
Ma se quella persona è qualcuno che odi? Si potrà mai odiare col cuore?
Forse quando non c’è più nessuno da amare. Quando quell’odio ti ha consumato, stritolato, schiacciato. Quando il tuo cuore è diventato solo un cumulo di cenere, memoria di una fiamma ormai spenta.
Era così che mi sentivo, quella notte; quella notte in cui tutto è finito, in cui tutte quelle bocche divoratrici di cuori si sono chiuse per sempre. Calde lacrime scivolavano dai miei occhi, ma non facevo in tempo a sentirne il sapore, ché subito il mio cuscino le assorbiva, impregnandosi anch’esso del mio dolore. Era bianco, così come le lenzuola che mi ricoprivano i piedi, il comodino accanto al letto, le tende alle finestre. Il bianco è il colore del vuoto, ho letto una volta in un libro, e quel senso di vuoto tra il petto e l'addome, là dove sembrava che si annodassero tutti i fili del corpo,  continuava a portare nuovi ricordi nella mia mente, e nuove lacrime nei miei occhi. Volevo morire.
“È inutile continuare”, mi dicevo mentre mi rannicchiavo sotto le coperte, l'unico posto sicuro in cui potevo dare sfogo a tutta la mia disperazione. “Ormai hanno vinto loro”.
Mi sedetti sul letto, prendendo tra le mani il bicchiere posato sul comodino.
«Vorrei proporre un brindisi» declamai al vento con le guance rigate, le tende che ondeggiavano seguendo i suoi soffi gelidi.
«A voi, che avete sempre intralciato il mio cammino. Avete vinto!» e sollevai in alto il mio drink letale, gli occhi arrossati per il troppo piangere. Immaginavo che tutte le persone fuori dalla stanza si fossero riunite intorno a me, alzando ognuno il proprio bicchiere in segno di saluto, con grandi sorrisi che solcavano i loro volti, attendendo il momento in cui mi sarei accasciata a terra. Una macabra imitazione di un cin-cin da festa.
Non rimasi sorpresa, quando la vidi comparire all'improvviso, al centro della stanza. Abbassai il bicchiere: non avrei potuto nemmeno morire come desideravo. Ma perché proprio lei?
Piccola come una bambina, sembrava proprio una bambola di porcellana. I lunghi capelli corvini accentuavano il colore livido della sua pelle. Un paio di braccia ossute sbucavano dalle larghe maniche della candida tunica, reggendo un fucile alto quasi quanto lei. Senza smettere di fissarmi, con i suoi grandi occhi neri come la mia paura, inclinò la testa di lato. Le sue labbra sottili non si erano mosse di un millimetro, eppure sapevo quello che mi stava chiedendo.
“Non è qui per me”.
Un attimo dopo ero in piedi davanti a lei. Non avevo più paura: sapevo quello che dovevo fare.
Quando la bambola bambina ripeté la sua domanda muta, un ghigno comparve sul mio volto scarno.
«Tutti» le risposi, serrando i pugni.
Si mosse verso la porta, ma i suoi passi non fecero alcun rumore, quasi fosse fatta di vento. Mi misi dietro di lei, osservando incantata il modo in cui armeggiava il fucile, una parte stessa del suo corpo. Premette il grilletto, e il primo proiettile di quella Notte Rossa colpì la porta, scardinandola. Ciò che ne rimase cadde a terra con un tonfo, ma nessuno sarebbe mai riuscito a sentirlo: la strada che ci separava dalle altre stanze era troppo lunga.
Circondati da un buio sempre più opprimente, percorrevamo lo stretto corridoio senza mai pensare a tornare indietro. E non appena l'ultimo spiraglio di luce proveniente dalla mia stanza si spense, cominciai a sentire i primi suoni.
Perché lì, dietro quelle porte, era nascosto tutto il mio passato.
Da qualche parte due persone si urlavano a vicenda, mentre un bambino piangeva, impaurito dallo spettacolo a cui stava assistendo.
Sentivo altre persone disperarsi dietro un'altra porta.
«Mi dispiace! Sono rimasta con lei tutta la notte!»
«No, NO! È impossibile! IMPOSSIBILE!»
«Cosa sta succedendo?»
«È MORTA!»
«Non può finire così... no, NO!»
È sempre stato difficile, per me, percorrere quel corridoio. Quei tonfi, quei lamenti, quelle urla, mi rimbombavano nella testa come martelli su un'incudine. Mi rannicchiavo a terra, mentre quel buio, sadico, giocava con me, facendomi sentire sempre più sola. E debole.
Non riuscivo a vedere la strana bambina, eppure sapevo che era lì, davanti a me. Non si lasciava impressionare da tutto ciò che ascoltava, e continuava a camminare, superando una alla volta tutte le porte che comparivano accanto a noi. Loro non potevano morire: appartenevano al passato, e l'unica cosa che potevamo fare era continuare a camminare. Continuavo a seguirla, spinta soltanto dalla voglia di non sentire più quei suoni: mi facevano troppo male.
Di colpo la bambola si fermò, e io con lei. La sentii armeggiare di nuovo con il suo fucile, e poi un rumore di spari riempì l'aria, mentre le torce di una piccola stanza rotonda davanti a noi si accendevano una ad una. Né un tappeto né un mobile adornavano quella sala: le pareti e il pavimento erano totalmente bianchi. Avevamo superato il corridoio, ma eravamo di nuovo nel vuoto.
Davanti a me, unica macchia scura in quella desolazione bianca, c'era un'altra porta. Si aprì cigolando, e tre donne in vestaglia presero posto al centro della sala, una accanto all'altra. Il baluginio delle fiamme ne rimarcava i lineamenti, facendo sembrare le loro rughe ancora più profonde, i loro sguardi più severi.
La donna al centro fece schioccare la lingua per dimostrare tutto il suo disappunto.
«Bene, bene, cosa abbiamo qui? La piccola sognatrice! A quanto pare sei riuscita a superare il corridoio.»
A quelle parole, le sue seguaci scoppiarono a ridere.
«Sei davvero convinta che potresti farcela, adesso?» dissero in coro.
«Lo sai che il tuo percorso si ferma qui, vero? Il tuo futuro ti aspetta.»
Già, il mio futuro da fallita.
«Un futuro senza il tuo caro teatro...» disse quella a destra
«...e senza la tua cara scrittura.» continuò quella a sinistra.
«Noi hai speranze.» aggiunse la donna al centro «Tu non sei nessuno. Figurati se riusciresti mai a laurearti, a trovare un lavoro... un mucchio di frottole irrealizzabili. Al limite potrai lavare i calzini di tuo marito per tutta la vita. Sempre se qualcuno ti vorrà.»
E tutte e tre scoppiarono a ridere. Ero l'unica che poteva vedere quella piccola creatura al centro della stanza; era già in posizione, con le dita della mano destra pronte sul grilletto.
«Un giorno» dissi quando smisero di ridere «vi rimangerete ogni singola parola che avete appena pronunciato.»
Partirono tre colpi. Le donne si coprirono la bocca con le mani: qualcosa le aveva colpite lì, ma non riuscivano a capire cosa.
E poi, le loro lingue si rivoltarono nelle loro stesse gole.
All'improvviso spalancarono gli occhi, piene di terrore. Una dopo l'altra si gettarono a terra, contorcendosi sulla dura pietra. Cercarono di rimettere la lingua a posto con le mani, gemendo mentre tentavano di respirare. Cominciarono a scavare con le unghie nella morbida pelle del collo, il volto ormai viola,  ma l'unica cosa che ottennero furono tre vestaglie intrise di sangue, lo stesso sangue che si stava spargendo, rosso, sul candido pavimento, creando un macabro contrasto.
Quando anche la donna al centro smise di muoversi, mi avvicinai; tutte e tre mostravano la stessa espressione disperata: le bocche spalancate che sembravano ancora alla ricerca di ossigeno, gli occhi rivoltati nelle orbite, le facce di un pallido violaceo: il colore della morte. Sorrisi quando le vidi in quello stato, con i corpi contratti in mostruose pose. Quella bambola, quella bambina, o qualunque cosa lei fosse... era riuscita in qualcosa che credevo impossibile.
Un cigolio preannunciò l'arrivo di altre persone. Avevo quasi dimenticato la loro esistenza, felice com'ero nell'essere riuscita in due dei miei obiettivi.
«Un po' di veleno e ti sbrigavi subito. Non c'era bisogno di combinare tutto questo pasticcio». Quella voce così familiare... non poteva smettere di criticare qualunque cosa vedesse. Alzai gli occhi, e mi ritrovai di fronte un paio di gelidi occhi azzurri, incorniciati da una moltitudine di ricci ribelli. Dietro di lei, un ragazzo con gli stessi occhi teneva sottobraccio un'altra ragazza dai capelli corti. Leggermente impauriti alla vista del sangue, mi guardavano sorpresi da quello che avevo fatto.
«Le hai uccise...» disse il ragazzo con voce sommessa. La ragazza si voltò verso di lui.
«No, guarda, si sono addormentate mentre davano un ketchup-party!» sbottò.
«FAI SCHIFO!» Era stata un'altra donna, accanto alla porta, a urlare. I suoi lineamenti, così simili ai miei, erano deformati in una smorfia di disgusto. «Renditi conto di quello che hai combinato!»
«Abbiamo fatto bene a lasciarti qui» disse la ragazza con i capelli ricci. «Sei solo una buona a nulla» fece un passo in avanti, e io indietreggiai, sbattendo contro qualcuno.
Non fui sorpresa di vederlo lì, immobile e silenzioso, quando mi voltai. Ora che non c'ero più io a scompigliarglieli, i suoi capelli erano perfettamente in ordine. Li aveva anche tagliati. Per un interminabile istante i suoi occhi carichi di odio incontrarono i miei.
«Non  puoi scappare dal tuo presente» mi disse.
Mi avevano circondata.
Ovunque mi girassi, li vedevo tutti intorno a me. Quelle persone che tanto avevo amato, ma che mi avevano abbandonata non appena avevano potuto, lasciandomi completamente sola.
Il dolore era troppo grande. No, non potevo vincere contro tutto questo. L'unica cosa che poteva salvarmi era...
… di nuovo, un rumore di spari. Quando venne colpito, il ragazzo davanti a me mi rovinò addosso. Tante volte lo avevo stretto tra le braccia, una vita prima, quando ancora non c'era una voragine al posto del suo cuore; ora, invece, le mie braccia non riuscirono a sostenerlo, e lui cadde a terra insieme agli altri. Erano tutti ridotti nella stessa condizione, con un buco grande quanto il mio pugno al centro del petto.
Degli esseri senza cuore.
Mi guardai intorno. I miei piedi scalzi erano ricoperti da quel liquido vermiglio che ormai riempiva quasi tutto il pavimento. La bambola era di nuovo accanto a me. Sapeva che ormai era tutto finito, che ormai erano tutti morti.
Con gli occhi chiusi non più pieni di lacrime, il viso rivolto verso il cielo, in piedi tra tutti quei morti, potevo accogliere dentro di me la vita.
Respiravo a pieni polmoni l'odore acre del sangue, lo stesso che inzuppava anche il mio vestito. Ridevo nell'ascoltare quei rumori che potevo ancora sentire provenire dal corridoio. Non avevano più un significato per me.
Ero libera. Il passato era alle mie spalle, il futuro e il presente ai miei piedi.
Una mano, fredda come solo un corpo morto può essere, si chiuse attorno al mio braccio. Trasalii, spaventata, ma era soltanto la mia cara amica che mi chiamava.
Ho superato i tuoi tristi ricordi, ho ucciso le tue paure sul tuo futuro e sul tuo presente. Niente e nessuno potrà fermati. Ma ricordati che questo è solo un sogno.
La guardai incuriosita, mentre mi consegnava il suo pesante fucile. Non sapevo nemmeno come impugnarlo.
Tocca a te trasformarlo in realtà.



venerdì 28 settembre 2012

La Terra Dorata


Ad Alessia, Leila, Rossella e Tommaso (in rigoroso ordine alfabetico!), i più grandi Amici che avrei mai potuto desiderare, gli unici ad essere riusciti a rallegrarmi in quella terribile serata trasformatasi in un incubo.

Esiste un mondo in cui il Sole, con i suoi caldi raggi pieni di vita, non sorgerà mai. In quel mondo nessuna stella guiderà mai un essere umano verso la sua meta, e né la Luna lo rincuorerà mai, facendo volgere i suoi pensieri verso chi lo sta aspettando a casa. Niente di tutto ciò esiste in quella terra così lontana da noi, fuori dal nostro tempo e dal nostro spazio.
Esistono però gli alberi, grandi alberi dalla ruvida corteccia dorata risplendente di luce, una luce calda e millenaria, destinata a non spegnersi mai. I tronchi nodosi sono intrecciati su loro stessi, e s’innalzano per metri e metri. Sembrano quasi delle enormi colonne che sorreggono il cielo, formando un grande, sontuoso tempio dedicato a un’avvenente dea dell’antichità ormai dimenticata.
Ma esisterà davvero un cielo?
Non è possibile rispondere a questa domanda, visto che i rami di questi alberi sono talmente fitti, che è impossibile vedere aldilà di essi. Una brezza infinita li scuote lievemente, facendo cadere qualcuna delle miliardi di foglie sanguigne che vi sono attaccate. Il vento le fa volteggiare delicatamente nell’aria, facendole eseguire una miriade di piroette prima che, finalmente, possano toccare terra, creando un morbido tappeto dalle mille sfumature scarlatte, che impregna l’aria di un leggero sentore di vita ormai spenta.
Un fiume scivola per tutta la Foresta, riempiendo l’aria del suono dell’acqua che si scontra contro le dure rocce del suo letto. Nessuna foglia cade mai in quel ruscello, nessuna foglia viene mai trascinata via dalla fragorosa corrente. Solo a una cosa è permesso di bagnarsi in quell’acqua limpida e pura.
In un angolo di questa Terra Dorata, qualcosa sta cambiando. Qualcuno, o forse qualcosa, viene trasportato proprio dal Fiume. Indossa una tunica bianca, così lunga che sia le sue mani che i suoi piedi sono ricoperti dalla morbida seta. Il naso e gli occhi sono circondati da una marea di efelidi marroni, e i capelli dorati sembrano quasi dei raggi luminosi attorno alla sua testa, cinta da una corona di fiori dorati. Con le braccia e le gambe leggermente aperte, la creatura continua a farsi trasportare, fino a quando, finalmente, non apre gli occhi.
Quasi meccanicamente alza il busto, facendo spostare lateralmente i fiori intrecciati, con i capelli gocciolanti che si uniscono e si attaccano alla veste, già incollata al suo esile corpo. La corrente è troppo forte e cerca quindi di trovare un appiglio sulle due sponde. Nonostante le lunghe maniche riesce nell’intento, ma non appena cerca di alzarsi in piedi il Fiume la fa cadere in ginocchio.
Ma non avrebbe mai lasciato che la trasportasse via.
Così si ritrova a guadare il fiume gattoni, sporcandosi dalla testa ai piedi di fango, e quando, finalmente, riesce a issarsi sulla terra ferma, si adagia con la schiena rivolta verso le morbide foglie, con gli occhi chiusi.
Normalmente avrebbe avuto il fiatone, avrebbe sentito il cuore battere all’impazzata. In realtà, quando quasi per abitudine mette una mano sul petto, l’unica cosa che continua a sentire è lo scroscio imperterrito dell’acqua.
E in quell’istante, ricorda tutto.
Spalanca gli occhi all’improvviso, liberando un braccio dalla lunga manica per toccarsi la testa. Poi scatta in piedi, con alcune foglie rimaste impigliate tra i capelli ancora gocciolanti. Sa che respirare ormai è totalmente inutile, ma continua ostinatamente a farlo. Ha ancora la mano tra i capelli, e quando trova la corona di fiori se la strappa via con rabbia, gettandola nel Fiume.
Si lascia cadere in ginocchio, le mani strette a pugno, lasciando scorrere calde lacrime di rabbia lungo le guance infangate.
Riesce a vedere, ha ancora tutti i capelli sulla testa, riesce a camminare, e il suo cuore è silenzioso.
Il suo più grande sogno non si è avverato. Ha perso la sfida più grande della sua vita. La malattia ha vinto, e lei è morta.
Morta.
Quella parola continua a martellarle la testa, come se volesse spaccarla e uscire da lì.
Inerte.
Sua madre e suo padre non ci saranno più per lei. Né lei potrà mai aiutarli a riappacificarsi dopo una discussione. Da quel momento in poi sarà solo un triste ricordo da trascinarsi dietro ogni giorno, ogni ora, ogni istante della loro vita.
Spenta.
Non si lamenterà più a scuola per le interminabili lezioni con i suoi amici. Non uscirà più con loro, non riderà più con loro. Perché loro sono ancora vivi.
Loro... i miei amici...
Non ne aveva molti. Solitamente, quando uscivano insieme il sabato sera, erano soltanto in cinque. C’era Chiara, la sua prima vera amica, con i capelli neri come la notte sempre impeccabili, a differenza dei ricci ribelli di Alessandra, sua compagna di banco dalle medie, la prima a prendersi in giro dicendo che Ale (così la chiamavano solitamente) in inglese significasse “Birra”, con gli occhi azzurri come il cielo pieni di lacrime dalle risate; erano di un azzurro diverso da quelli di Giovanni, che ricordavano più il colore del mare; e poi c’era Lucia, con un grande sorriso sempre stampato sulla faccia, innamorata più che mai del suo gatto Jim.
Era stato proprio durante una di quelle serate insieme che il mal di testa aveva fatto la sua prima comparsa. Non appena si erano incontrati nel solito punto, la testa aveva cominciato a dolerle leggermente. Ma nel giro di un paio d’ore la sua emicrania era peggiorata, e quando ritornò a casa andò subito a letto, senza nemmeno cambiarsi. Pensò che fosse soltanto troppo stanca. Non dormì per quella notte, e quando la mattina dopo si alzò dal letto, l’unica cosa che erano cambiati erano gli occhi, gonfi e adornati da un bel paio di occhiaie scure. Aveva fatto colazione velocemente, aveva preso una compressa ed era tornata a letto. Dopo un’ora il mal di testa sembrava essere passato leggermente, ma ritornò ben presto, ancor più forte di prima. Sua madre sapeva cosa stava passando, circa ogni mese aveva un attacco simile anche lei. “Deve essere un problema genetico”, si era detta. Il giorno dopo fu uguale al precedente, e decise quindi di portare la figlia al pronto soccorso. Il medico la visitò rapidamente, e le prescrisse subito un farmaco. Questa volta sembrò funzionare, e dopo quasi una settimana ritornò a scuola, come sempre seduta tra Alessandra e Giovanni, con Lucia davanti. Sarebbe stato ancora più bello se anche Chiara fosse stata con lei, ma andava in un’altra scuola. Anche se, come al solito, le lezioni erano noiose e avevano un leggero effetto soporifero (specie dopo aver passato qualche notte insonne), era contenta di essere di nuovo tra loro. Passare troppi giorni a casa a lungo andare diventa abbastanza noioso, specie se con un forte mal di testa, visto che non puoi nemmeno leggere o usare il computer.
Fu dal mese dopo che tutto cambiò all’improvviso.
Era ferma accanto al lampione della fermata, come tutte le mattine, con lo zaino a terra accanto a lei, aspettando che arrivasse il pullman che portava Giovanni, così da poter andare a scuola insieme. All’improvviso un terribile dolore la colpì, come se qualcuno le avesse infilato mille aghi nella testa. Si portò le mani fra i capelli, spaventata, e non appena il pullman svoltò l’angolo, il mondo divenne ombra.
Quando rinvenne, si accorse di essere stesa lungo un fianco, con la testa leggermente posta all’indietro. Aprì gli occhi lentamente, e vide Giovanni chino verso di lei, con il cellulare in mano.
«Ehy, tutto okay?»
Lei annuì. Quando cercò di rialzarsi, lui la bloccò.
«Rimani sdraiata. L’ambulanza arriverà fra un po’»
Dietro di lui vide una schiera di ragazzi incuriositi. A quanto pare, solo il suo amico l’aveva aiutata.
«Che è successo?» Riuscii finalmente a dire.
«Un attacco epilettico»
Spalancò gli occhi, sorpresa. Un attacco epilettico? Perché? Cosa stava succedendo?
Riprovò di nuovo ad alzarsi, e di nuovo Giovanni la bloccò.
«Non ci pensare nemmeno! Sta ferma.»
Non appena finì di parlare, una sirena annunciò l’arrivo dell’ambulanza. Le fecero una piccola visita di controllo, tempestando l’amico di domande.
«Ha sbattuto la testa nel cadere?»
«Non lo so, quando sono arrivato era già a terra. Mi ci è voluto un po’ per farmi spazio tra la folla, volevo sapere cosa fosse successo. Quando ho visto che era la mia amica, l’ho subito aiutata»
«Intendi dire che tutta questa gente non ha mosso un dito?»
Lui annuì, tutto rosso in faccia per le troppe attenzioni ricevute. I volontari presero la ragazza e la trasportarono in una barella. Mormorò un “ciao” all’amico prima che la portassero via.
Fu nel pomeriggio che lo rivide nuovamente. Insieme a lui c’erano anche Alessandra, Chiara e Lucia. Non appena fecero capolino nella grigia stanza dell’ospedale, la ragazza non poté fare a meno di sorridere. Buffo come la loro semplice presenza potesse renderla felice, nonostante quello che era successo. I suoi genitori decisero di andare al bar a prendere un caffé, lasciando gli amici soli, liberi di parlare.
La prima ad entrare fu Lucia, che corse subito ad abbracciarla, come sempre.
«Ci hai fatto preoccupare, sai?»
«E io? Che l’ho vista a terra?» le disse Giovanni di rimando.
Alessandra e Chiara furono le ultime ad entrare. Chiara si sedette poco lontana dal letto, mentre Alessandra le si avvicinò, dandole una piccola pacca sul braccio.
«[1]Macchina gialla!» esordì «Tanto domani non devi andare a scuola, no?»
A quelle parole, la ragazza si rabbuiò «Chissà se ci tornerò più a scuola, piuttosto» disse.
Tutti si ammutolirono, e l’atmosfera tornò ad essere quella tetra di prima.
«Cos’è successo?» era stata Chiara a parlare questa volta.
«Ricordate il periodo in cui avevo quel terribile mal di testa?»
Tutti annuirono.
«Era il primo sintomo di un glioblastoma»
Se prima l’atmosfera era diventata tetra, adesso lo era ancora di più. Solo Chiara, che non aveva ancora fatto quell’argomento in biologia, chiese «Ovvero?»
«Un tumore al cervello»
Ora anche Chiara si era ammutolita, capendo quanto fosse grave la situazione.
«Non ho voglia di restare in questo letto cinque minuti di più» disse la ragazza «Mi aiutate a mettermi sulla sedia?»
Non capirono subito di cosa stesse parlando. Ma quando notarono che alle loro spalle c’era una sedia a rotelle, capirono tutto. A quanto pare, le sue gambe avevano smesso di funzionare.
Passarono il pomeriggio a gironzolare per i corridoi, raccontandosi piccoli fatti successi durante la mattinata, come se non fosse mai successo niente, come se la ragazza che trasportavano non fosse la loro amica. Ogni tanto qualche infermiere li sgridava per il troppo baccano provocato dalle loro risate; ma quando se ne andavano, scoppiavano a ridere, e continuavano come se niente fosse. Buffo come una giornata da incubo si fosse trasformata in una giornata meravigliosa.
Quando poi dovettero andare via, aiutarono di nuovo la loro amica a risalire sul letto. I suoi genitori si chiedevano come mai fossero così allegri, ma non fecero domande.
«Verremo a trovarti tutti i giorni. Faremo i turni, promesso!» le disse Lucia.
Mantennero la promessa. Vederli le faceva sempre piacere, e proprio come la prima volta, ogni volta che uno di loro entrava, le pareti grigie sembravano colorarsi di colpo.
Ma anche se era felice, il tumore non regrediva.
La chemioterapia la rendeva sempre più debole, e non voleva nessuno specchio nei paraggi, per non vedere la quantità di capelli che le cadevano a ciocche.
Finalmente, dopo un mese, la fecero tornare a casa. Non appena entrò in camera, fu sorpresa di vedere tutti i suoi amici lì.
«Oggi è un giorno speciale, giusto?» esordì Chiara «E allora dobbiamo festeggiare!»
Le avevano organizzato una piccola festa a sorpresa.
Debole e stanca, senza più nemmeno un capello in testa, si sentiva la ragazza più felice del mondo. Due settimane dopo sarebbe dovuta tornare per un altro ciclo di chemioterapia, ma per il momento non le importava. Voleva soltanto passare una serata fantastica con i suoi fantastici amici, proprio come quando uscivano insieme il sabato sera. Le avevano fatto anche un regalo: una parrucca rossa.
«Ma io sono bionda!» aveva detto non appena l’aveva aperta.
«Da oggi sei rossa. E non devi nemmeno pagare la tinta!» le disse Alessandra.
Quando andò a letto, era più stanca che mai. Ma, cosa più importante, era felice.
Si risvegliò all’improvviso, circondata dal buio. Afferrò la sveglia analogica dal comodino, ma sembrava rotta, visto che non si illuminava. Odiava non sapere l’orario. All’improvviso, però, sentì la porta aprirsi, e sua madre sussurrarle «Tesoro, svegliati! Devi almeno pranzare!»
«Se è mezzogiorno, perché è tutto buio?»
«Ma che stai dicendo? La tapparella è ape...» si bloccò all’improvviso. Poi la sentì correre in cucina. Dopo un po’, stava parlando al telefono, allarmata.
Aveva capito subito chi stava chiamando. E aveva capito subito anche cosa fosse successo.
Oltre all’uso delle gambe, aveva perso anche la vista.
La riportarono subito in ospedale. Qualche cellula tumorale aveva viaggiato per il cervello, accumulandosi anche nel lobo occipitale.
Un’altra operazione, un altro ciclo di chemioterapia. Sempre più stanca, e sempre più debole. Ormai passava più tempo dormendo che da sveglia. Ma non voleva mollare. Vivere era l’unica cosa che le importava al momento. E i suoi genitori, così come i suoi amici, erano sempre lì, accanto a lei, ad aiutarla a mangiare, a vestirsi, a lavarsi. E ogni giorno le leggevano qualche capitolo dei suoi libri preferiti, visto che lei non poteva più farlo. Promise a se stessa che quando tutto sarebbe finito, avrebbe imparato l’alfabeto Braille. Perché lei era quasi certa che sarebbe vissuta, nonostante i medici lo negassero. Lo ripeteva in continuazione, così che nessuno lo dimenticasse, lei stessa per prima. Era questo il suo più grande sogno, il suo unico desiderio.
«Non sempre i sogni si realizzano» disse un giorno Lucia.
«Il mio sì»
«E se non si avvera?»
«Si avvererà»
Quel giorno non c’era solo Lucia, ma anche tutti gli altri. Ormai non c’era più allegria nei loro animi, sapevano cosa sarebbe potuto succedere da un momento all’altro. Un’infermiera entrò ricordandogli che l’orario delle visite era finito da tempo.
«Prima che me ne vada, voglio che tu mi faccia una promessa» disse Chiara
«Spara»
«Quando i sogni non si realizzano, non bisogna scoraggiarsi, bisogna affrontare la situazione. Mio nonno me lo diceva sempre. Non ho idea se ci sia qualcosa dopo questa vita o meno, me se c’è, ricordati di noi, ricorda che non ti vorremmo mai triste. Non pensare che tu sia morta, pensa che tu sia rinata. Devi promettermi che lo farai.»
«Non solo a lei, promettilo anche a me» aggiunse Giovanni
«E a me» dissero uno dopo l’altro anche Lucia e Alessandra.
«Okay, okay, lo prometto! A tutti voi! Ora andate, prima che l’infermiera vi sgridi di nuovo»
Dopo che se ne erano andati, si addormentò.
E non si risvegliò più.
O almeno, non in quel mondo.

Non pensare che tu sia morta, pensa che tu sia rinata.
Rinata...
Di colpo, la ragazza smette di piangere. Ora sono queste le parole che rimbombano nella sua testa.
Ho fatto una promessa ai miei amici... devo rinascere!
Si alza in piedi, e si accorge che la tunica è di nuovo asciutta e pulita, così come i capelli. Si gira verso il Fiume che l’ha trasportata fino a lì, ascoltando per un attimo lo scoscio dell’acqua, mentre alcune foglie le accarezzano la testa prima di cadere. Ora sa quello che deve fare.
Aiutandosi con i denti, la ragazza strappa le maniche, fino a quando non le arrivano al gomito. Poi si china, strappandosi anche la veste fino alle ginocchia.
Ora sì che sono libera... ora sì che posso rinascere!
E comincia a correre, seguendo il corso del fiume.
Rinascere!
Raggiunge una velocità che non aveva mai raggiunto prima, ma non è stanca. Il suo cuore ha smesso ormai di battere, e non ha più bisogno di respirare.
Rinascere!
Altre foglie continuano a cadere, impigliandosi ai suoi capelli. Ma a lei non importa, continua imperturbabile a correre.
Rinascere!
Scoppia a ridere per la gioia, e mentre ride continua a correre, a correre e a correre!
Rinascere!
Ora vede dove finisce il Fiume, vede come sfocia in quel piccolo lago, prima di compiere il grande salto e cadere nell’abisso.
Io...
L’acqua in quel lago è abbastanza alta da potersi tuffare. E lei si tuffa, lasciandosi trasportare dalla forte corrente.
...devo....
Riemerge dall’acqua, abbastanza da poter vedere quanto vicina fosse alla cascata.
... RINASCERE!
Insieme a tutta quell’acqua, anche lei viene buttata giù, nel vuoto, urlando dalla forte gioia.

Dove sia finita, è impossibile dirlo, in quella terra così lontana da noi.


[1] È un piccolo gioco. Se vedi passare una macchina gialla, il giorno dopo verrai interrogato. Puoi però passare la “maledizione” a qualcun altro, semplicemente toccandolo dicendo «Macchina gialla», appunto.

giovedì 20 settembre 2012

Confessioni

Non ho idea di quanto tempo sia passato da quando ho cominciato a osservare il cursore. Forse un minuto, forse due, forse tre. A me sembra un'eternità.
Un'eternità passata a fissare una stupida tacchetta lampeggiante, su uno sfondo totalmente bianco.
Ecco, è proprio così che è la mia mente in questi giorni.
Bianca.
Vuota.
Spenta.

Cerco sul dizionario la parola spento, alla ricerca di un altro termine che possa descrivermi; ma su quella stupida applicazione scaricata dal Play Store non ho trovato niente.

Anche lei è vuota.

Non ho voglia di prendere il mio Garzanti. In realtà non ho nemmeno voglia di scrivere.

-Smettila di mentire a te stessa!
Oh, no, non di nuovo quella stupida voce!
-Smettila con questa storia!
Ti prego, ti prego, stai zitta!
-Sai perfettamente qual è la verità! 
Ho detto STAI ZITTA!

La voce ha smesso di parlare. Ma non per il mio urlo interiore, no, quella crudele voce non smette mai di parlare fino a quando non raggiunge il suo scopo. E il suo scopo è stato raggiunto: la verità è tornata nella mia mente.
Sconfortata, mi sdraio in orizzontale sulla coperta a strisce del mio amato letto. Lascio che le infradito nere scivolino via dai miei piedi, mentre i lunghi capelli biondi strisciano sul marmo, dall'altra parte del letto. Fa niente, tanto tra un po' dovrò andare a lavarmeli. Aspetto che il sangue cominci ad andare nella testa. Sento le guance arrossarsi e le tempie scoppiare, ma continuo a rimanere sdraiata a testa in giù.
Da questa strana posizione, ciò che vedo è ciò che più amo: i miei libri. Ripercorro con loro la mia storia. Osservo le colorate copertine de Il Club delle Baby Sitter, e degli altri libri de Il battello a vapore che mi hanno accompagnata durante tutti gli anni delle elementari. Già a sette anni, avevo capito che la lettura sarebbe stata per sempre la mia droga.
Più in alto (o da come li vedo io, più in basso), alcune copertine nere mi strizzano l'occhio. Effettivamente, nero era anche il periodo che stavo passando quando li ho letti. Quando la gente scopre che nella mia libreria  ci sono quasi tutti i libri di Stephenie Meyer, rimane stupefatta. Non è qualcosa di cui mi vergogno: posso capire tutte le parodie che girano su YouTube, o spoilerare a chi guarda solo i film. E poi, lo ripeto, era un periodo proprio nero quello, nero quanto potrebbe esserlo non accettarsi per quello che si è.
Gli ultimi tre ripiani sono un caos totale, o almeno per me: il poco spazio disponibile mi costringe a non poterli disporre come vorrei. Ma amo quei tre scaffali, quel tripudio di colori che formano, quel miscuglio di odori (perché, si sa, ogni libro ha il suo profumo) che riesci a sentire se ti avvicini un po' di più. Chiudo gli occhi, lasciando che tutte le emozioni che mi hanno regalato mi avvolgano. E mi chiedo cos'altro mi regaleranno quella trentina di libri che ancora non ho letto, accumulati durante le feste (e gli sconti) degli ultimi  anni.
Sulla cima (oppure dovrei dire sul fondo?) della mia libreria, c'è un unico oggetto: una coppa. Grande quanto il mio avambraccio, dorata e blu, ha un'incisione sul piedistallo, in corsivo:
A Sara Ventruti

Il mio nome. Su una coppa. Io sono stata capace di vincere qualcosa. Io sono riuscita a trovare qualcosa che so fare davvero: scrivere.

-Un lavoro mediocre, Ventruti. 
È questo che mi dicono a scuola, da sempre. È già tanto se riesco a prendere uno stupidissimo 7. Anche se m'impegno, anche se ce la metto tutta, i miei voti rimangono invariati. Ma da un po' ho imparato a fregarmene.
Che me ne frega di questa stupidissima scuola, di questo stupidissimo liceo! Io riesco a scrivere, ficcatelo in quel cervello! Che me ne faccio di un 10? Tu dici che dovrei essere felice, ma per me rimarrà sempre e soltanto uno scarabocchio.
E uno scarabocchio non riuscirà a farmi provare quello che provo mentre scrivo.

-Sei un'imbranata, Sara!
Questo me lo dicono un po' tutti. Non c'è niente che riesca a rimanere tra le mie mani per più di un secondo, da una palla, a un bicchiere (rigorosamente di vetro). Non riesco nemmeno a camminare: inciampo in continuazione. Le mie cadute sono talmente assurde da passare quasi per leggende.
Ok, lo ammetto, la prima a ridere quando cado sono io stessa. Del resto, non m'importa se non riesco a camminare per le vie del mio paese: scrivere mi fa camminare per le vie della mia anima.


Ma ora, di colpo, non ho più voglia.

-Lo hai fatto di nuovo. Hai di nuovo mentito. 
Stupida vocetta inutile, quando deciderai di stare zitta?
-Quando TU ti deciderai a prendere in mano quel libro.

È da un po' che lo sto fissando, sempre a testa in giù. Ormai la testa mi sta scoppiando, e comincio ad avere qualche difficoltà a respirare. Mi rialzo, ignorando le vertigini, e allungo una mano. Il gabbiano Jonathan Livingston sembra sorridermi quando lo afferro e lo tiro fuori.
Apro una pagina a caso, e di colpo una nuova vocina riecheggia nella mia testa.

-La gente non vola per due motivi: o non ne ha la capacità, o ne ha paura.

Me la ricordo quella voce. È così calda, così gentile. Ogni volta che la sento, è come una tenera carezza che mi sfiora il viso.

-Il tuo è il secondo caso. Perché hai paura di volare, Sara? È così bello farlo...

Dopo aver detto questa frase, mi aveva dato un piccolo bacio su una guancia. Come se quel bacio fosse il sigillo con cui aveva chiuso una pergamena, così che io potessi leggerla quando sarebbe arrivato il momento giusto.
Ora il sigillo è rotto, e la pergamena è qui davanti a me, aperta. Quello che c'è scritto, è la pure e semplice verità.

No, non è vero che non ho voglia di prendere il dizionario, che non ho voglia di scrivere. La verità è che ne ho paura.
Paura di fare ciò che più amo al mondo. Bello schifo.

Ma come sono arrivata a ciò?

La risposta, anche quella, in realtà l'ho sempre saputa.

Ero diventata schiava della perfezione. Essendo la cosa che so fare meglio, ho cercato di raggiungere vette per me impossibili. Passavo un sacco di tempo a fissare quella stupida tacchetta, alla ricerca della frase perfetta. Ma quando la trovavo, era vuota, perché non stavo più scrivendo per l'amore per la scrittura in sé, ma per ottenere la perfezione, quella perfezione che mi è sempre stata negata.

Nah, la perfezione non esiste, me ne rendo conto solo ora. Buffo che ciò che me l'ha fatto capire è stata la scrittura stessa.

Ho provato a scrivere le prime cose che mi sono passate per la testa, una cosa che non avevo mai fatto. Il risultato è quello che avete appena letto.

Ora c'è un'altra voce che mi torna nella testa, un tempo ignorata, anche lei in attesa del momento giusto:
-Ho preferito il tuo post al tuo racconto, se devo essere sincero. Hai la capacità di rendere grandi le cose piccole. Continua a scrivere sul blog. Parla della tua vita quotidiana, invece di cercare trame intricate.

Ora ho copio-incollato il mio elaborato da Word al blog. Mi chiedo cosa ne penserà lei, prof, ora che ho provato a fare ciò che mi ha detto.

Hai visto, Orenya? Hai visto cosa ho fatto? Guarda, sto imparando a volare! Lo so, la strada è ancora lunga, ma è pur sempre meglio di niente. Non ho usato il dizionario. Non l'ho nemmeno riletto. E tra due secondi premerò il pulsante Pubblica. È pazzo, lo so, ma quando mai ho fatto qualcosa di normale?

domenica 20 maggio 2012

Dammi tre parole: scuola, sempre, bellezza.


Ma anche no. Prof, io scelgo una parola tutta mia. Ha detto che va bene, vero?
Allora la mia parola è... recitare!

Qualcuno può pensare che recitare significhi essere qualcun altro, indossare una maschera. Ricordo ancora la mia prima lezione di recitazione, quando lo dissi anche io.
C’è chi pensa che recitare bene significhi anche saper mentire.
Mi ci sono voluti un paio d’anni per capire quanto queste affermazioni fossero sbagliate.
Ma allora, cosa significa, esattamente, recitare?
Recitare è essere se stessi. Buffo, ma vero. Il teatro fa uscire parti di te che nemmeno pensavi di avere.
Ho corteggiato una dottoressa, ho pianto e riso per la morte di mio figlio, sono impazzita a causa delle continue telefonate dei miei allievi, ho raccontato la storia d’amore di due ragazzi in un quartiere malfamato, sono stata una ricca e stravagante signora, ho portato un bambino dentro di me e ho anche partorito.
In quei momenti, io non fingevo. Io sono stata davvero tutte queste cose. È grazie al teatro se ho provato delle emozioni che non tutti hanno la possibilità di provare.
Una volta che il sipario si apre, ti ritrovi in un mondo parallelo, dove tutto è possibile. E quando invece si chiude, niente sarà più come prima: il pubblico, con il loro applauso e la loro risata, ti ha cambiata. 
Perché ti ha fatto scoprire un altro pezzo di te.